La “Gravina di Monsignore” detta così perché appartenuta, per oltre quattro secoli, alla “Mensa vescovile” di Conversano è formata da un solco erosivo, scavato da un fiume nel corso dei millenni. Proprio la presenza di acqua fece sì, che in epoca preistorica, su un pianoro che sovrasta la “Gravina”, fosse impiantato un villaggio capannicolo, poi abbandonato.
Sul fianco est della “Gravina” si trova anche una grotta, detta “di Sant’Antonio”, ossia dedicata all’abate eremita, che pare sia stata destinata, nei secoli passati, a sede di culto.
I fianchi del solco calcareo sono coperti di vegetazione con essenze tipiche della macchia mediterranea, purtroppo talvolta preda del fuoco, mentre sul fondo scorre, in occasione di piogge abbondanti, un rigagnolo d’acqua che raggiunge il mare. L’ambiente della “Gravina”, è abitato anche da molte specie di animali.
La salubrità del luogo, ai primi del XVII secolo, attirò l’interesse del vescovo di Conversano Francesco Maria Sforza, oriundo monopolitano, il quale fece costruire una villa (1604), dotata di opportuni sistemi di difesa, che domina la “Gravina” e permette di osservare in lungo tratto di costa. L’utilizzo dell’edificio, destinato per la villeggiatura dei vescovi conversanesi, non durò a lungo: alla fine del secolo l’edificio fu ampliato e destinato a masseria. Alla fine del XVIII secolo, fu pure costruito un grande frantoio, per la produzione di olio. Dopo l’Unità d’Italia (1860) l’edificio e le terre circostanti furono confiscate e vendute a privati. Attualmente l’edificio, meritevole di un restauro per la destinazione che ha avuto e per la sua struttura, è del tutto inagibile.